Il ruolo dell'Ue e dell'integrazione europea nella crisi dell'Italia repubblicana degli anni '90: attori, snodi

 

 

Massimo Piermattei

Dipartimento di Economia e Impresa, Università della Tuscia

 

Abstract

 

 

Introduzione

L’accelerazione del processo d’integrazione europea realizzatasi tra l’Atto unico e il trattato di Maastricht s’inserì in Italia in un clima di “progressiva degenerazione” della vita politica e istituzionale. Il sistema partitico uscito dalla crisi del biennio 1992-1993 si trovò quindi a confrontarsi con un’Europa che, con il crollo del Muro di Berlino, con la firma di Maastricht e con l’avvio del mercato unico, aveva preso a correre. L’obiettivo di questo contributo, è dunque di offrire una (sintetica) panoramica sugli attori e sugli snodi che segnarono il rapporto tra l’integrazione europea e la nuova fase dell’Italia repubblicana cercando di evidenziare il ruolo ricoperto in quel percorso dall’Ue e dalle sue istituzioni.

 

Gli attori

Partiti. A livello sovranazionale, negli anni ’90 emerse la progressiva rilevanza delle Federazioni transnazionali dei partiti europei: diversi partiti italiani nati dalle ceneri del precedente sistema partitico ricercarono con insistenza una sponda europea che gli permettesse sia di far parte di un attore più incisivo a Bruxelles, sia di consolidare la loro “nuova immagine” agli occhi dell’elettorato. Costante fu il corteggiamento del Pci prima, del PdS poi, al Pse – iniziato ben prima dei grandi cambiamenti del 1989. Oppure quello tentato da Forza Italia ai conservatori europei sin dal maggio 1994, sbloccato solo nel 1998 nel momento in cui i “governi rosa” dominavano e le elezioni europee del 1999 si avvicinavano. Importante fu anche l’accordo tra il gruppo gollista al Pe e An, accordo che fece “cadere le pregiudiziali” in Europa contro il partito guidato da Fini.

Sul fronte interno, il salto di qualità compiuto dal processo d’integrazione con Maastricht e con il mercato unico interruppe quel consenso unanime verso la costruzione europea che si era consolidato negli anni ’80 attraverso un sostegno pressoché unanime al federalismo spinelliano e al “mito” dell’unione politica (si pensi al sostegno al trattato Spinelli, al referendum consultivo e alla nuova legge elettorale per le europee del giugno 1989). Con l’avvio del bipolarismo, l’integrazione europea iniziò a essere una delle principali fratture tra le coalizioni che si contendevano il governo del Paese, con il centrodestra più cauto e un centrosinistra sostenitore di un europeismo più tradizionale. La particolarità è che in entrambe le coalizioni erano presenti forze che avevano votato contro Maastricht e che quindi proprio sui temi europei rendevano conflittuale e poco coesa la politica europea degli esecutivi nel suo insieme (An per il centrodestra e Rifondazione per il Centrosinistra). Infine, l’Europa e la moneta unica divennero per la Lega Nord l’appiglio principale durante la strategia secessionista – su cui si tornerà meglio in seguito.

 

Presidenti della Repubblica. Garanti dell’unità nazionale, nel corso degli anni ’90 videro questa prerogativa messa in discussione sia da una riscoperta del territorio, sia dall’accelerazione del processo d’integrazione. I presidenti che guidarono il paese in quella decade dovettero quindi rispondere alla sfida lanciata dall’Ue ai temi dell’unità nazionale e della repubblica in crisi: in questa prospettiva, il percorso che va dalle ultime fasi della presidenza Cossiga agli inizi di quella Ciampi mostra chiaramente lo sforzo “pedagogico” dei presidenti di far entrare l’Europa e l’Unione europea nel bagaglio identitario, politico e sociale dei cittadini e delle istituzioni per rifondare e rinsaldare il patto repubblicano agganciandolo alla modernità democratica europea e all’Ue. Particolarmente incisiva fu, ad esempio, l’interpretazione dei poteri e delle prerogative del Capo dello Stato da parte del presidente Scalfaro (es. governi Ciampi, Dini e le relazioni avviate durante le due crisi del governo Prodi). Così come importante fu l’innovazione di Carlo Azeglio Ciampi che nel discorso d’insediamento ai tradizionali “W l’Italia, W la Repubblica” unì per la prima volta anche un entusiasta “W l’Unione europea”.

 

Tecnici. Nella travagliata crisi della Repubblica del biennio 1992-1993 l’Italia conobbe, grazie al Presidente Scalfaro, i governi tecnici, chiamati a guidare il paese per avviare l’impegnativo risanamento finanziario richiesto dal trattato di Maastricht, che le forze politiche non riuscivano a fare. Dal governo Ciampi, l’Italia ha sostanzialmente smesso di avere ministri dell’economia di provenienza partitica, oppure, ha avuto sempre accanto un “angelo custode” tecnico (come Dini per Tremonti, Ciampi per Visco). Inoltre, con il governo Prodi del 1996, si stabilì per la prima volta la figura del “super ministro” all’economia (tecnico) che guida, ormai da venti anni, le responsabilità dell’esecutivo cercando di coniugare l’impronta politica del governo con i vincoli europei.

 

Istituzioni locali: l’avvio e il consolidamento di numerose politiche europee negli ani ’70 si unirono, nella decade successiva, alla centralità assunta dalla sussidiarietà, tesa a collocare le decisioni al livello di governo più vicino ai cittadini. La caduta del muro di Berlino avviò una profonda ridiscussione dei rapporti tra centro e periferia nei vari stati membri che fu prontamente raccolta nel trattato di Maastricht (coesione obiettivo fondamentale della neonata Ue, nascita del Comitato delle Regioni). Di conseguenza, i comuni e soprattutto le regioni diventarono negli anni ’90 un interlocutore privilegiato per le istituzioni europee e il fulcro per l’attuazione delle politiche comuni in settori diversissimi. Questi fattori si mescolarono in Italia con una riscoperta del territorio e dei localismi che aveva trovato nella Lega Nord di Bossi l’alfiere principale. Si avviò quindi una rinnovata attenzione verso i sindaci (si pensi alla stagione elettorale del novembre del 1993 primo test della nuova legge elettorale che prevedeva l’elezione diretta del “primo cittadino”) e le regioni (che sarebbe sfociata, anche in questo caso, con l’elezione diretta del “governatore” a partire dal 2000), così come si intensificarono il dialogo e le relazioni dirette tra le istituzioni locali italiani e quelle centrali europee.

 

L’opinione pubblica. La sfida della moneta unica, l’avvio e il consolidamento di politiche che interessavano ormai tutti gli aspetti della quotidianità, l’esito negativo del referendum danese e il precario “Sì” ottenuto a quello francese sul nuovo trattato e l’accesa conflittualità politica sulla convergenza di Maastricht furono tutti fattori che portarono l’integrazione europea, forse per la prima volta, a essere un tema ampiamente discusso nell’opinione pubblica. Se questa era stata spesso percepita come argomento riservato per élites politiche, economiche e intellettuali, nel bene e nel male, l’opinione pubblica irruppe in questi processi e iniziò a interessarsi alle tematiche europee – si pensi alla trasmissione televisiva “Maastricht Italia” presentata da Alan Friedman o ai festeggiamenti in piazza a Roma per l’inclusione dell’Italia nel gruppo di testa della moneta unica. Se il popolo italiano aveva votato in modo quasi “fideistico” in favore dei poteri costituenti al Pe nel famoso referendum consultivo del giugno 1989, più di dieci anni dopo la musica era nettamente cambiata e pur prevalendo ancora un sostegno generale al processo d’integrazione, il paese nel suo insieme avviò una riflessione più disincantata sui “costi e benefici” della membership italiana della Ue.

 

Gli snodi

 

Le trattative per Maastricht. Il percorso che portò agli accordi di Maastricht sancì il tramonto della retorica europeistica dei partiti e delle istituzioni italiane. L’accento posto sul processo di convergenza verso la moneta unica, l’impossibilità di far passare le proprie (retoriche) rivendicazioni, a causa di persistenti crisi politiche e della situazione economica e finanziaria più che precaria, fecero dell’Italia uno dei grandi sconfitti delle trattative per Maastricht nonostante che il paese ebbe “tra le mani” diverse occasioni per guidare quel processo (il secondo semestre di presidenza del 1990 nel quale, dopo il lancio dell’unione politica fatto tra i due consigli europei di Dublino ad opera del tandem Mitterrand-Kohl, si sarebbero aperte le due conferenze intergovernative). Alcune clausole del trattato si configurarono poi come un’autentica beffa: il fondo di coesione, ad esempio, destinato a quelle regioni arretrate col Pil inferiore al 75% della media comunitaria, era calcolato però su base nazionale (escludendo quindi le regioni italiane, il cui Pil nazionale, grazie all’economia trainante del Nord, era assai superiore al 75%).

Andreotti e De Michelis furono gli esponenti principali di una “ventata di realismo” che cercò di far comprendere alla classe politica e istituzionale come l’Italia dovesse cercare nuove strategie alternative alla inconcludente retorica federalista (particolarmente aspre furono alcune interviste del Ministro degli esteri) e capire come rispondere appieno alla sfida che si stava profilando all’orizzonte. Le trattative e il contenuto siglato a Maastricht rappresentarono dunque l’innocenza perduta dell’europeismo italiano: la successiva crisi della Repubblica s’innescò anche per quella sfida e l’incapacità conclamata della classe politica di affrontarla.

 

La ratifica di Maastricht. Se l’europeismo aveva rappresentato negli anni ’80 uno dei rari punti di convergenza all’interno di un sistema partitico e politico altamente conflittuale, la ratifica di Maastricht sancì invece il ritorno a una brusca divisione sull’Europa e sul suo processo d’integrazione. Il dibattito, (assurdamente) compresso dal governo Amato per ratificare il trattato prima del referendum francese, fu introdotto da un documento di maggioranza e da due di minoranza a firma Msi e Rc. Consistenti fette del Pds e della Dc avanzarono nel corso del dibattito parlamentare perplessità piuttosto rilevanti e pressanti dubbi sulla capacità dell’Italia di rispondere a quella sfida. Nonostante l’ampia approvazione, dunque, Maastricht rappresentò l’inizio di una frattura sull’integrazione europea che avrebbe successivamente animato le coalizioni che si contendevano il governo del paese.

 

La vittoria della destra nel marzo 1994. Le elezioni politiche del 27-28 marzo furono vinte inaspettatamente dalla doppia coalizione di centrodestra che aveva in Silvio Berlusconi e Fi il partito principale. La vittoria delle destre preoccupò non poco la Ue e i suoi stati membri per due motivi: 1) la nomina dell’euroscettico Antonio Martino a Ministro degli esteri; 2) la presenza nella compagine governativa di esponenti missini ancora legati a doppio-filo a nostalgie del Ventennio. Il frutto di queste preoccupazioni furono iniziative clamorose, come quella messa in scena dal belga Di Rupo nei confronti di Fisichella, e la controversa questione della mozione approvata dal Pe il 5 maggio 1994 in vista del vertice di Corfù nella quale l’Assemblea di Strasburgo chiedeva sostanzialmente al Presidente della repubblica di riaffermare la fedeltà dell’Italia ai valori fondanti della costruzione europea. L’Italia divenne così un paese sotto osservazione anche per “interessi interni” di altri paesi, come la Francia e la Germania, che temevano un’esportazione del successo della destra estrema italiana. Il successo di Berlusconi alle europee del 1994 avviò il tentativo di sviluppare una politica più “muscolare” e di potenza che ebbe nel veto verso la richiesta di adesione della Slovenia e nei ripetuti attacchi alla moneta unica e a Maastricht due degli esempi principali.

La fine del governo Berlusconi e l’avvicendamento con Dini (e il conseguente cambio alla Farnesina tra Martino e Susanna Agnelli) furono quindi vissute con un certo sollievo dalle istituzioni comuni e dagli altri paesi membri.

 

Il documento Schauble-Lamers. Il tormentato rapporto tra il governo Berlusconi, l’Italia e l’Unione europea si arricchì di un importante capitolo nel settembre 1994 quando i conservatori tedeschi pubblicarono un importante documento sul futuro dell’integrazione europea, firmato da Schauble e da Lamers del settembre 1994 con la proposta di istituire un nucleo duro di paesi virtuosi (sulle tematiche economico-finanziarie) che avrebbe dovuto progredire sulla strada dell’integrazione lasciando la porta aperta per gli altri paesi. L’esclusione dell’Italia dal novero dei paesi membri del nucleo duro avviò in Italia un acuto dibattito su quella che si palesava come una “autoesclusione” del paese – a causa della situazione politica ed economica. Su riviste come LiMes, il Mulino, si sviluppò un confronto serrato tra la classe politica, gli intellettuali e gli attori del mondo economico sulle ragioni dell’esclusione dell’Italia e sulle vie migliori per colmare il gap. IL documento suonò soprattutto come un preoccupante campanello d’allarme che, a due anni e mezzo dalla ratifica di Maastricht, segnalava ancora una volta il ritardo dell’Italia rispetto al processo di convergenza. Non è un caso se al dibattito parlamentare sull’integrazione europea, che seguì di pochi giorni la pubblicazione di quel documento, la Lega Nord criticò fortemente Martino e non applaudì la sua replica. Lo Schauble-Lamers può quindi essere considerato come uno dei fattori che innescò il meccanismo che avrebbe portato pochi mesi dopo alla fine del governo Berlusconi e a un maggiore sforzo nel risanamento del paese.

 

Il vertice di Valencia. Nel settembre del 1996 Romano Prodi incontrò a Valencia il premier spagnolo Aznar. Nelle intenzioni del presidente del consiglio italiano il meeting doveva servire a stabilire una sorta di alleanza mediterranea che si facesse promotrice per un rinvio generalizzato della terza fase Uem così da avere più tempo per mettere in ordine i conti. Prodi ricevette un freddissimo “no grazie” e la conferma che la Spagna sarebbe stata pronta per il 31 dicembre 1997: l’Italia non poteva dunque permettersi di rimanere fuori quando altri paesi, con uguali difficoltà di partenza sarebbero state pronte. Il settembre 1996 è dunque da considerare come la data effettiva in cui il governo italiano capì che c’erano a disposizione soltanto quindi mesi e iniziò una disperata quanto esaltante rincorsa che lo portò a fine 1997 a rispettare ben 4 parametri su 5 (mentre, nel settembre 1996, non ne rispettava ancora nessuno). Il vertice di Valencia, in altre parole, tracciò una linea di demarcazione tra chi voleva davvero che l’Italia entrasse nell’Euro con il “convoglio di testa” e chi pensava fosse ancora plausibile un rinvio o, peggio, che fosse preferibile rimanere fuori pensando poi di poter giocare sui cambi e sulle svalutazioni. Valencia fu il momento della scelta: provare a europeizzare l’Italia o condannarla a essere la periferia dell’Ue.

 

La stagione indipendentista della Lega Nord. Dopo il boom elettorale del 1992, che la portò a essere il quarto partito italiano, la Lega Nord di Umberto Bossi cercò di giungere alla riforma federale del paese e a un maggior rispetto dei vincoli di Maastricht attraverso il sostegno agli esecutivi Berlusconi e Dini. A fine 1995, invece, Bossi dedusse che tali riforme non sarebbero state possibili per le vie costituzionali e impresse al suo partito una controversa svolta secessionista. Il secessionismo leghista faceva leva principalmente sul rischio che l’Italia rimanesse fuori dalla moneta unica: se si correva tale rischio, sostenevano i leghisti, la colpa era dell’arretratezza e del clientelismo delle regioni meridionali e degli sperperi di Roma. Di conseguenza, le imprese del Nord sarebbero rimaste fuori dalla moneta unica per colpe “altrui”. Iniziò quindi una massiccia operazione di propaganda attraverso iniziative clamorose (parlamento e governo del Nord, dichiarazione di autodeterminazione, fondazione di un nuovo CLN e referendum sull’indipendenza) che agitarono il dibattito politico e nell’opinione pubblica particolarmente dalla primavera del 1996 a quella dell’anno successivo. La Lega proponeva una divisione in due dello stato con un Nord pienamente inserito nel circuito del “nucleo duro” dell’Euro e un centro-sud al quale sarebbe rimasta l’arma della svalutazione competitiva e delle manovre sui cambi per colmare il gap. La svolta secessionista si esaurì a mano a mano che il governo del tandem Prodi-Ciampi iniziava a rispettare i criteri di Maastricht mostrando poi tutta la sua strumentalità nel momento in cui tra il marzo e il maggio 1998 l’Italia fu inserita nel gruppo di testa della moneta unica. A quel punto, la dirigenza leghista iniziò ad attaccare l’Euro e la stessa Ue accusandoli di essere un’altra gabbia che soffocava le aspirazioni del Nord abbracciando prima l’euroscetticismo e poi assumendo un approccio marcatamente antieuropeo.

 

Conclusioni

 

Gli anni ’90 non risolsero le contraddizioni nell’approccio all’integrazione europea delle istituzioni e dei partiti italiani, anzi, per alcuni versi lo problematizzarono enormemente segnando la fine di quell’approccio retorico che se aveva portato il paese ad assumere posizioni avanzate nella Cee a sostegno del federalismo, non era però stato accompagnato da un approccio concreto nella realizzazione delle politiche europee e nel rigore economico-finanziario. Sembrò però chiaro come l’integrazione europea e l’Ue furono, nelle acque agitate dal crollo del Muro di Berlino e dalla terribile crisi sociale, politica ed economica del biennio 1992-1993, l’ancora di salvataggio alla quale aggrapparsi per cercare di rifondare un nuovo patto repubblicano e gettare le basi per un paese moderno e pienamente europeo. Questa azione, però, non poteva certamente essere compito della Ue e del suo processo d’integrazione.

 

Documents annexes

 

© CDU/CSU - Überlegungen zur europäischen Politik – Wolfgang Schaüble, Karl Lamers, Massimo Piermattei - 01.09.1994