Projet «Le modèle européen: son passé, son présent et son avenir (EUMOD)»

Evoluzione del modello europeo di controllo dell'immigrazione

 

Dalla crisi degli anni settanta alle rivoluzioni degli anni ottanta

 

Simone Paoli

Dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell'Università di Padova

 

Abstract

 

L'intervento affronta il tema delle politiche europee di immigrazione, intese come politiche di gestione dei flussi migratori.

In particolare, dopo una breve analisi dei modelli di politica migratoria adottati nei principali paesi europei tra la metà degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Settanta, l'intervento si concentra sui motivi che, tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, portarono a un ripensamento e, poi, a una drastica revisione delle politiche di immigrazione in tutti i principali paesi europei; particolare rilievo, a questo proposito, assunsero i paralleli fallimenti del cosiddetto modello rotatorio, applicato soprattutto in Germania e Svizzera, e del cosiddetto modello assimilazionista, adottato in Francia e Gran Bretagna, a cui si aggiunse, con dirompenti conseguenze sociali, politiche e culturali, la crisi economica globale  (1974-1975) seguita alla prima grande crisi petrolifera (1973). Se, da una parte, questi avvenimenti stimolarono la volontà politica di rafforzare le politiche di parificazione, e integrazione, dei cittadini stranieri legalmente residenti, dall'altra, essi crearono una nuova consapevolezza sulla necessità di interrompere il reclutamento di lavoratori stranieri e, persino, di incentivare il ritorno volontario degli stranieri già presenti sul territorio.

Tali politiche, avvenute senza alcun coordinamento a livello comunitario e senza alcuna consultazione con i paesi di provenienza, ebbero un effetto immediato sia sulle direttrici dei flussi migratori nell'area euro-mediterranea, sia sulle modalità dei flussi migratori in arrivo sul continente europeo. In parte come conseguenza della loro crescita economica, e in parte come riflesso delle strategie di chiusura adottate dai tradizionali paesi europei di immigrazione, i paesi dell'arco meridionale del continente, soprattutto Italia e, poi, Spagna, si trasformarono repentinamente da paesi di emigrazione a paesi di immigrazione. Oltre a questo, i flussi migratori, che nei primi trenta anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano avvenuti prevalentemente all'interno di regole e accordi internazionali, avevano interessato soprattutto maschi adulti e si erano generati sulla base di complementari interessi economici tra paesi di invio e paesi di accoglimento, cominciarono, per effetto diretto delle politiche di contrasto all'immigrazione, a cambiare natura; non trovando più sfogo nelle vie legali del reclutamento internazionale di lavoratori, infatti, l'immigrazione, prevalentemente extra- europea, percorse in maniera crescente i canali dell'immigrazione clandestina o, comunque, illegale, le possibilità offerte dalle generose leggi sui ricongiungimenti familiari e le pieghe interpretative delle norme nazionali sul diritto d'asilo, vanificando in questo modo i propositi restrittivi annunciati e messi in atto.

A partire da una riflessione su questo nuovo fallimento, maturò una strategia che l'intervento, sulla base di una pluralità di documenti raccolti presso archivi italiani (archivi governativi - Archivio Centrale dello Stato a Roma, Archivio Storico della Camera dei Deputati a Roma e Archivio Storico del Senato a Roma -, e archivi di personalità politiche e/o organizzazioni economiche, politiche e sociali - Archivi Storici della Fondazione Istituto Antonio Gramsci a Roma, Archivi Storici dell’Istituto Luigi Sturzo a Roma, Archivi Storici della Fondazione Ugo Spirito a Roma, Archivi Storici della Fondazione Bettino Craxi a Roma, Archivi Storici della Fondazione Luigi Einaudi a Torino, Archivio Storico della Fondazione Giovanni Goria a Asti, Archivio Storico della Fondazione Giovanni Spadolini Nuova Antologia a Firenze, Archivio Storico dell’Istituto Studi Sindacali della UIL  a Roma, Archivio Storico della CISL a Roma e Archivio Storico della CGIL a Roma), francesi (Archivi Nazionali Francesi a Parigi), comunitari (Archivi Storici del Consiglio dell'Unione Europea a Bruxelles e Archivi Storici dell'Unione Europea a Firenze) e europei (Archivi Storici dell'Istituto Internazionale di Storia Sociale a Amsterdam), cerca di raccontare e spiegare. In particolare, tra la metà e la fine degli anni Ottanta, cinque paesi membri della Comunità Europea tentarono di raggiungere insieme ciò che avevano fallito da soli: la riduzione dei flussi migratori in entrata nei propri territori nazionali. Così facendo, essi definirono un preciso modello di gestione e controllo dei  flussi migratori che finì per diventare il modello dell'intera Comunità Europea, divenuta poi Unione Europea (1993).

Oltre e, per certi versi, più che per accompagnare la formazione del mercato comune e per contribuire all'obiettivo dell'Europa dei cittadini, infatti, i rappresentanti di Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo firmarono l'accordo di Schengen (1985) e si impegnarono nella definizione di una Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen (1990) per concordare tra loro e, in una certa misura, imporre agli altri una precisa concezione di politica migratoria. Questa concezione si basava su una prospettiva di rigido contenimento dei flussi che, a sua volta, si affidava a un sistema generalizzato di visti, a un sistematico presidio dei confini, a severe misure di respingimento alle frontiere, a strumenti efficaci di espulsione dei clandestini, alla responsabilizzazione dei vettori, allo scambio di dati e informazioni su scala europea e, seppure in modo più inconfessato e più inconfessabile, alla progressiva esternazionalizzazione dei controlli. In pratica, si trattava di spostare su un piano europeo la stessa impostazione sperimentata a livello nazionale nel decennio precedente creando, nel contempo, una zona cuscinetto tra le aree a più alta propensione migratoria e il nocciolo geopolitico dell'Europa comunitaria. Questa area cuscinetto sarebbe stata in un primo tempo costituita dai paesi dell'Europa mediterranea, non a caso esclusi dal primo gruppo di paesi firmatari degli accordi di Schengen; lo strumento usato per costringere i riluttanti paesi comunitari di nuova immigrazione e di più diretto contatto con le realtà di emigrazione a pagare i costi politici e finanziari del controllo delle frontiere con le stesse regole e gli stessi livelli di efficienza dei paesi che costituivano il centro geopolitico della Comunità Europea, infatti, fu la loro iniziale esclusione dagli accordi di Schengen e la subordinazione della loro partecipazione al rispetto di criteri già decisi senza il loro contributo.

In questo modo, il modello europeo di controllo dell'immigrazione, ricalcato sull'esperienza delle politiche nazionali sviluppate dai tradizionali paesi europei di immigrazione tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta e trasposto negli accordi di Schengen negoziati e firmati tra la metà e la fine degli anni Ottanta da cinque paesi membri della Comunità Europea, si impose come modello di tutti i paesi che, a cominciare dalla metà degli anni Novanta, cominciarono a far parte della cosiddetta area Schengen.